Dario Franceschini: che si fa?

Verrebbe di dire Franceschini che fai?  Ma il tono troppo confidenziale, anzi la confidenzialità da social così in voga nella società del vaffa non ci piace. Poi le distanze vogliamo mantenerle anche noi.  Allora meglio chiedere: Ministro Dario Franceschini, che si fa? Si assiste passivamente,  non voglio dire in modo compiaciuto, alla morte del cinema in capo ad una agonia lenta che sembra aver introdotto nel tessuto di settore un virus addirittura più letale del Covid-19? Si aspetta un vaccino? Oppure si lascia che il cinema inteso nella sua accezione più propria, cioè un prodotto culturale da consumare nei suoi spazi elettivi  – le sale cinematografiche – scompaia del tutto, assorbito o meglio ingoiato dalle piattaforme televisive dove oramai i distributori, costretti a vendersi l’anima, stanno trovando rifugio?

Naturalmente non parliamo soltanto del cinema ma di tutti quegli innumeri segmenti che competono al suo ministero dunque teatri, circhi, gallerie d’arte e via così. Insomma la cultura italiana. Del resto il suo ministero riguarda anche i Beni Culturali.

Fine di un rito culturale collettivo: chi ha voglia di evitarla?

La cultura muore. A noi tuttavia interessa, per specifiche e a volte nostalgiche incrostazioni professionali, il cinema, senza ovviamente sottrare importanza e bisogni al resto. E lei ammetterà, ministro, che il cinema italiano qualche importanza ce l’ha e l’ha avuta nel mondo. Non faccio nomi perché immagino che al Ministero qualche informazione in merito arrivi – faticosamente – a circolare. A me piacerebbe sapere, però, se davvero questo Ministero  e di riflesso questo Esecutivo siano convinti che sia solo questione di soldi (quanti e “veri”, poi, sarà da vedere). E cioè se bastino i cosiddetti ristori – eufemistico dirozzamento lessicale che il linguaggio governativo intende quali aiuto e sollievo economico ma che spesso fanno pensare ai bibitari delle spiagge – a risolvere il problema.

Mi piacerebbe anche sapere se qualcuno sia sinceramente preoccupato dell’andazzo, dei film che anziché uscire al cinema finiscono sulle piattaforme televisive, dei festival destinati tristemente all’online (sempre meglio, forse, della malinconica e depressiva Mostra veneziana in mascherina di quest’anno) e tutto quello che accade e accadrà attorno all’industria cinematografica.

Il destino, in verità, pare già scritto. E, spiace dirlo, anche lei ci sta mettendo la penna: parla di ristori e di miliardi come se bastassero quelli a esorcizzare l’assuefazione sociale alla fruizione televisiva o internettiana del cinema. Il nodo è qua: chi comunica il futuro della cultura cinematografica e del suo non surrogabile modello di consumo elettivo?  Arrivano le feste con la sale chiuse e magari indirizzate, tra un po’, a vaccinazioni di massa e sembra che il pensiero politico sia concentrato solo sulle stazioni dello sci: tutto lascia percepire che al cinema, vale a dire alla prima porzione dell’immaginario collettivo, venga riservata una corsia preferenziale verso la decadenza pilotata e il requiem finale. Una specie di eutanasia.  Per la quale si cerca, se già non si è trovato, il becchino.