L’America immaginaria della tv italiana

DELL’AMERICA ci piace un sacco di roba. Intanto la mitologia che le si è costruita attorno in termini linguistici, iconografici, paesaggistici, dimensionali; poi la musica, il country nelle varianti country e rock, il rockabilly primigenio, il blues, Johnny Cash, Bob Dylan e Joan Baez, la Beat Generation; il cinema che non ha bisogno delle citazioni di titoli tanto quella stessa mitologia ha nutrito tra Old West, strade diritte nella Monument Valley, trucks rombanti e fumiganti, foreste, autori e star; e altro, naturalmente. Perché è talmente grande, l’America.

Joe Biden e Donald Trump

Oggi tutti pazzi per Joe Biden e va bene così. L’America sta voltando pagina e va altrettanto bene, soprattutto per una buona parte di americani: i quali per via di un Donald Trump, diciamo così, un po’ stravagante, non si sono riconosciuti nei valori del loro Paese, tra muri alzati a livello sostanziale e ideologico e porte distrattamente aperte, invece,  all’espansione record del Covid-19 e della sua caterva di morti. Meglio un democratico quasi ottantenne, avranno pensato i suoi elettori, che un repubblicano settantaquattrenne aggressivo, imprevedibile e sotto molti aspetti dannoso più che utile. Insomma, gaudio diffuso, nonostante i golpisti da avanspettacolo e da arrampicata in azione alla Casa Bianca (quasi un gigantesco flash mob), perché in tutto questo c’è anche un’America rosicante.

Ha colpito e colpisce, peraltro, la generale esultanza dell’Europa, peraltro da sempre ossequiante tutti i presidenti degli Stati Uniti, incluso quello appena sostituito. E, circoscrivendo la faccenda al posto nel quale viviamo, ci hanno un po’ turbato, nei vari telegiornali,  le cronache garrule dei colleghi giornalisti durante le dirette da Washington o le dotte spiegazioni di ex inviati durante i talk show,  a commento del vittorioso incedere di Biden. Intendiamoci, non per il risultato elettorale in sé che va benissimo, ci mancherebbe: piuttosto per le pennellate retoriche sulla democrazia ritrovata nel Paese simbolo dei valori democratici e delle aperture egualitarie. Capace, insomma di dare lezioni di libertà al mondo intero. Dimenticando qualche particolare storico.

Tre momenti dell’assalto alla Casa Bianca

Per esempio, partendo dall’inizio, il genocidio dei nativi americani consumato tra il 1610 e la fine dell’Ottocento, a occhio e molte croci un centinaio di milioni di persone; a metà Ottocento la legnata inflitta al Messico, più avanti la conquista delle Hawaii e, tra assoggettamenti, occupazioni e ingerenze varie, altre bandierine sulla carta geografica scorrazzando ovunque tra Portorico, Filippine, Panama, Honduras, Nicaragua, Repubblica Dominicana. Per non parlare della Guerra Fredda e della fase successiva fino, si può dire ai giorni nostri (e forse, qualche volta, pure in casa nostra), con la voce grossa e destabilizzatrice fatta un po’ ovunque sul pianeta anche attraverso la CIA, in una sequenza  interventista talmente lunga da scoraggiare qualsiasi arida elencazione. Resta comunque impossibile eludere la memoria atomica di Hiroshima e Nagasaki (circa 220 mila morti nella prima città e 150 mila nella seconda), il Vietnam, Cuba, il Kuwait, l’Iraq, l’Iran, la Libia, la Siria, lo Yemen, il Venezuela.

Magari l’amico americano, come è stato definito con retorica da una nostra televisione – malamente evocando il  film di Wim Wenders –  avrà sempre avuto ragione di fare quello che ha fatto, non abbiamo qua strumenti o intenti di giudizio. Però ci si vorrebbe regolare sui fatti e invitare tutti a farlo prima di abbandonarsi a interpretazioni festanti e ciarliere  su un nuovo presidente  che non potrà, per forza di cose, essere troppo diverso dai suoi 45 predecessori democratici e repubblicani o, per dirne una,  impedire ai cittadini americani di essere i maggiori consumatori di armi nel mondo.  Non basta aver battuto il pessimo Trump per essere celebrato nei titoli dell’insospettabile Il manifesto alla stregua di un Ho Chi Min: cioè il top dal punto di vista di quel giornale.