Nanni Moretti, forever autarchico

IL SOL DELL’AVVENIRE – Regìa di Nanni Moretti. Con Nanni Moretti, Margherita Buy, Valentina Romani, Silvio Orlando, Barbora Bobulova, Flavio Furno, Mathieu Amalric, Zsolt Anger, Jerzy Stuhr, Teco Celio, Giuseppe Scoditti, Beniamino Marcone, Valerio Da Silva, Angelo Galdi, Arianna Pozzoli, Rosario Lisma, Francesco Brandi, Laura Nardi, Arianna Serrao, Blu Yoshimi, Michele Eburnea, Elena Lietti, Benjamin Stender, Francesco Rossini, Federica Sandrini, Carolina Pavone, Sun Hee You. Drammatico, Italia-Francia. Produzione Sacher Film, Fandango con RaiCinema. Distribuzione 01 Distribution. Durata 95′.

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Nanni Moretti autore e attore. La sceneggiatura del film l’ha scritta con Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella

IL FATTO È CHE I FILM sono “diversi”. Non solo (ovviamente) tra l’uno e l’altro ma al loro interno. Cioè un medesimo film può essere diverso da se stesso. Dipende dal luogo nel quale lo si guarda, da come lo si guarda, a volte anche perché lo si guarda. Questo richiama anche un altro elemento, che a me pare fondamentale, cioè il fattore luogo perché il cinema inteso come sala cinematografica è diverso da casa e da quel rito croccante di un film visto al cinema che poi richiede all’uscita, per la strada, un dialogo sulle impressioni. Insomma tutto ciò che nella visione domestica si perde perché la fruizione è diversa al di fuori della (retorica della) sala e  il meccanismo cerebrale che si attiva genera la richiesta di una impressione critica resuscitata dalla latenza.

Vuol dire anche questo, Nanni Moretti, nel suo Il Sol dell’avvenire. Col suo attaccamento feroce alla sala cinematografica come luogo di consumo naturale di un film. E con echi politici così evidenti nel titolo quanto subordinati ad una fitta meditazione sul tema/metodo del “comunicare”: non solo attraverso il cinema, naturalmente, ma anche con delle semplici percezioni e sensazioni più intime. Niente di casuale, si capisce, tutto ben meditato. Ma con un’aspirazione alla libertà espressiva che fa di Moretti, più che mai e più di tutti, un vero autarchico nella lettura del cinema, della storia, della politica, dei sentimenti.

Barbora Bobulova e Silvio Orlando in una inquadratura del film

Ci sono un sacco di film in questo film: che racconta di un film che s’interrompe perché finiscono i soldi e il produttore boh, come nello Stato delle cose di Wim Wenders dove poi la storia prende un’altra gangsteristica strada; c’è lo shock felliniano del circo e del girotondo; ci sono la vasca aquatica con le bracciate di Neddy Merril il Nuotatore di John Cheever e, perché no, la piscina di Palombella Rossa che nell’andare del protagonista diventa un sistema di attraversamento spaziale e temporale (viaggio-verso, viaggio-dove); c’è l’amore precario, forse non-più amore, tra il regista Giovanni (Moretti medesimo) e sua moglie Paola (Margherita Buy) pure se i dubbi veri e decisivi vengono da lei; poi ci sono i baci, sparsi nel racconto, uno di qua uno di là, baciarsi è un’aspirazione, una necessità, in un certo senso perfino un vagheggiamento.

Tutto questo per chiedersi: dove va e che cosa è il cinema? E, ovvio, non solo. La riflessione, se si vuole la meditazione, si espande alla persistenza (resistenza) dei sentimenti, al bisogno oramai disperato di affettività, alla ripulsa del cattivo gusto ovvero della volgarità diffusi, alla comunicazione per immagini e pensieri. Con polemica? No, con stupore. Come quando il Moretti-Giovanni assiste sul set di un film non suo ma prodotto da sua moglie ad una scena girata con banale violenza. (Quentin Tarantino è un genio?). Stupore e ironia sfumata. Perché in questo cinema della speranza l’autore spende ciò che gli rimane da spendere in termini di speculazione critica, se il concetto di critica in quanto  coscienza e analisi ha ancora una senso, adesso. E gli attori che ha scelto non gli sono da meno: lo seguono e lo interpretano mantenendo inalterato quel tocco originario di placida inquietudine che è marchio di fabbrica.

Nanni Moretti nella parte di Giovanni, Margherita Buy in quella di Paola

Questa è la storia di molti film in un filo narrativo principale, dove Moretti fa il regista e si chiama, appunto, Giovanni. Sua moglie è Paola e fa la produttrice ma non per il film di Giovanni. Il film, che dunque è finzione nella finzione  e fa sentire pure il grido de La nuite américaine di Truffaut, s’ambienta nel 1965 e s’incaglia, materialmente e metaforicamente, tra i cingoli e i cannoni dei carrarmati sovietici impazzanti per l’Ungheria, scortato dalla discussione incessante e dubbiosa fra i due attori-coniugi Ennio (Silvio Orlando) e Vera (Barbora Bobulova), lui segretario esitante di una sezione romana del Pci, lei comunista integrale. Posizioni (in)conciliabili, nelle quali Giovanni-Nanni  rovescia le istanze della propria crisi confondendo cinema e vita. E anche idee, proiettandosi al futuro e infilandosi nell’intuizione del suo film che verrà, traiettoria della vita e dell’amore lungo gli anni e le canzoni italiane più belle. Che poi vuol dire sintesi temporale degli eventi . E, riguardo Moretti, di se stesso.

Molti film, appunto. L’uno nell’altro, meglio l’uno dall’altro. Se vengono in mente le matrioske o le scatole cinesi si sbaglia strada perché Moretti, oltre essere autarchico, si dà come al solito un modo espressivo assai contemporaneo scegliendo nel suo sistema visivo l’apertura in successione delle windows narrative, quasi lasciando intendere che avrebbe potuto pronunciarsi all’infinito, certo aiutato da un montaggio felice (Clelio Benevento) e da una fotografia (Michele D’Attanasio) adeguatamente allineata con l’idea di scrittura.

“Il Sol dell’avvenire”, la scena dell’epilogo

In questo “cinema della speranza e dell’apertura” – che così ci piace definire – si mette a nudo il meccanismo dell’illusione e si traccia il confine tra la realtà e la finzione o la sua rappresentazione. Il gioco è semplice ma, in un certo senso, dolente per quel che di inafferrabilmente nostalgico si porta dietro. Anche attraverso quella scena d’epilogo, carrello all’indietro, nel corteo sbandierante lungo i Fori Imperiali che ricongiunge attori del passato e del presente morettiano: annodando fili sparsi in un unico palcoscenico proprio come gli artisti vengono chiamati a ringraziare il pubblico dopo la recita. Qua senza l’inchino ma sorridenti al sole. A vedere questo, quasi con la sensazione di aver assistito a un film “definitivo”, se non un passo d’addio almeno un punto di non ritorno (al futuro).

Poi il suono. Non è secondario, anzi. Mica soltanto il Sole.  Il Sol è perfino la nota musicale, quella dell’avvenire, in questo caso cinematografico. Dopo il Mi e prima del La, con tutti i sensi secondi che la faccenda si porta dietro.