DUEL, 50 anni per salvare (forse) il cinema e tornare in sala

di Claudio Trionfera

Il “Peterbilt 281” del 1955 usato nel film, 350 cavalli e 15 marce: un mostro

Oleoso, cigolante, demònico, pezzato di ruggini e minacce arcane, fumigante di nera fetida emissione dal tubo di scarico. È il vecchio truck Peterbilt 281 del 1955 coi suoi 350 cavalli e 15 marce, dal muso lungo e digrignante, simbolo d’un simbolo, scheggia urlante di quel film entrato, senza neppure volerlo, nella sfera mitologica. Appesa al Peterbilt la cisterna Fruehauf del 1948, protuberanza chilometrica e crudele del truck, estetica da obitorio.

Steven Spielberg ha solo 25 anni quando nel 1971, vincendo una scommessa casuale e bizzarra, Duel sfugge al suo risicato destino televisivo per trovare al cinema una fama praticamente imperitura, ai margini della leggenda e nella risolutiva quanto irrevocabile definizione di cult. Sicché sono passati cinquant’anni. Mezzo secolo che a una certa generazione pare un soffio, l’inizio dei 70’s sembra ieri, ancora odoroso, croccante e carico di tutti i suoi ricordi e tutte le sue figure. E d’altra parte, a rivederlo oggi, Duel si conserva così, ancora e sempre giovane e vigoroso padre di tutti gl’inseguimenti. (Ri)provare per credere.

Steven Spielberg sul set di “Duel”: il regista ha solo 25 anni

Ne sa qualcosa il protagonista David Mann (l’attore Dennis Weaver), commesso viaggiatore e uomo comune che a bordo della sua Plymouth Valiant rossa è ingoiato dall’incubo fin dal primo sorpasso alla cisterna sulle deserte strade d’America. Poi controsorpasso e via così, a catena. Finché i suoi baffi incominciano davvero a tremare quando il Mostro dalle molte ruote s’anima di vita propria, ansima, sbuffa, respira e geme trovando ogni volta l’energia per lanciare il suo ululato spettrale dalla tromba accovacciata sul tetto. Braccandolo ovunque, dall’asfalto allo sterrato, fino a un desolato distributore di benzina lungo decine, forse centinaia di miglia.

Il soggetto di Richard Matheson, narratore geniale

Fantascienza, horror, thriller e avventura mescolati in una direzione suspense carica di angoscia, rade striature d’ironia e segni del destino, unghiate di un Male inarrestabile e satanico prodotto da chissà quale vendetta divina e derivato dall’antagonismo fra natura e cultura (cf. Franco La Polla), umanità e tecnologia: esplorando attraverso la metafora dello scontro uomo-macchina il nocciolo violento della vita americana in ogni suo lineamento. Spielberg è maestro nell’interpretare nella giusta direzione, destinandolo alle immagini con l’abilità e l’intraprendenza astuta di un illusionista, un soggetto (già pazzesco di suo) di Richard Matheson, narratore geniale, perfino produttore (Il clan del terrore di Jacques Tourneur, 1963) e qualche volta attore, ovviamente sceneggiatore con propaggini importanti sul lavoro di Roger Corman e le sue versioni cinematografiche del mondo di Edgar Allan Poe.

Con il camion prende forma il “fantastico quotidiano”

Il “fantastico quotidiano” prende forma, la routine e la normalità vengono stordite, sopraffatte dall’evento imprevisto e strabiliante quale paradigma della sintassi spielberghiana che qua si consuma in una delle sue forme più eccitanti e compiute; e nelle diverse declinazioni di senso suggerite allo sguardo rispetto alla identità “intelligente” del camion: dalla sua natura metafisica all’apparizione selvaggia e bestiale generata dall’inconscio, all’incarnazione dell’umano timore verso il dilagare tecnologico, alla manifestazione meccanica dei draghi delle favole col loro carico di terrore ancestrale, alla caratterizzazione simbolica dell’aggressività diffusa e patologica della gente al volante. Altro ancora, naturalmente, incluso il più superficiale e immediato abbandono ad una storia tesa e capace di materializzare l’ansia tentacolare che ogni automobilista prova osservando allo specchietto retrovisore un pachiderma meccanico  che lo tallona dappresso (a chi non è mai capitato e non ha mai pensato a Duel?). Dunque anatomia dell’angoscia.

L’attore Dennis Weaver è il commesso viaggiatore David Mann: l’incubo si materializza nello specchietto retrovisore della sua Plymouth Valiant rossa

D’altra parte questo 1971 vuole dire qualcosa, anzi molto. Sembrerebbe banale dire che rappresenta l’inizio degli anni Settanta e arriva dopo la fine dei Sessanta. Invece non è un momento qualsiasi (Spielberg medesimo, proseguendo nel suo percorso allegorico, interpreterà il nuovo decennio con i successivi Sugarland Express, 1974  e Jaws-Lo Squalo, 1975). Questa fatidica transazione temporale resta una delle chiavi culturali del XX Secolo, sotto ogni punto di vista. Intanto quello artistico: gli anni 60 hanno consegnato la loro ricetta incandescente destinata a produrre miti in quantità e, una volta consumati, pronti a lasciare il posto ad altre seduzioni e illusioni tuttavia lontane dalla reale natura dell’americano medio che continua a preferire John Wayne agli hippies o ad André Breton. Un situazione confusa che a livello cinematografico, dopo la grande crisi degli anni Sessanta, si risolve in un riassetto dell’intero comparto produttivo, già toccato dalla svolta (1969) di Easy Rider e alle relative fortune di tutto ciò che è arrivato dopo, a parte i modesti risultati ottenuti daaltri  film para-antagonistici nati sulla scia di quello diretto da Dennis Hopper. Confermando e apparecchiando in ogni caso quella tendenza “sovversiva” già presente nel cinema indipendente e più impegnato.

L’industria tv americana degli anni 60: assalto al cinema

Di fatto le major companies trovano in questa dimensione il modo di rigenerarsi: perché durante gli anni 60, specie nella loro seconda metà, la televisione arriva a destrutturare i generi classici del cinema che a sua volta, attraverso le sue qualità professionali e tecniche, affina, perfeziona e arricchisce il manufatto televisivo, rendendolo ancora più fruibile. Una sintesi della relazione, più o meno volontaria, fra i due mezzi è il Tv-Movie e, ancor meglio, l’opera seriale. Difficile non pensare allo stato delle cose dei giorni nostri: perché in definitiva, giusto alla fine dei 60’s, il panorama televisivo si dilata a tal punto da egemonizzare l’immaginario collettivo sintetizzando spettacolo e informazione (cf. Andrea Martini e Vito Zagarrio), in questo soverchiando e addirittura oscurando il cinema. Anzi divorandolo e incorporandolo, fino a trasformarlo in un proprio segmento, aprendo le porte a quella serialità che diventa paradigmatica di una produzione cinematografica – con studios e compagnia –  integrata alle urgenze del network (oggi piattaforma o più genericamente rete).

Allineati al distributore: accanto al thriller non manca l’ironia

Impressiona, in una certo senso, l’attualità di questa circostanza storica e industriale. E offrirebbe anche qualche spunto d’ottimismo se si ricordasse che proprio nella sua fase più declinante e in un certo senso drammatica in termini di riproducibilità – fra telefilm, serie e film pilota – il cinema americano riesce a plasmare una nuova generazione di autori dal tratto, sì, comune della formazione televisiva, ma capaci, proprio nell’acquisito rigore e finalizzazione del proprio lavoro, di riaccendere un settore spento scrivendo così la storia della New Hollywood. Anche con opere come Duel, bassissimo costo e risultato esplosivo, prodotto-tipo di una entusiasmante renaissance creativa e di un nuovo orizzonte espressivo.

La risposta ad un pubblico che vuole tornare nelle sale

Poi mettiamoci dentro, infilandoci nel sociale, l’indotto ideologico dell’America del Vietnam e il gioco è fatto nello spazio dell’area “indipendente” e dei suoi giovani autori aderenti ai temi della conflittualità, del presente storico e del realismo: con piena consapevolezza, tuttavia, dei principii inderogabili che regolano le leggi del circuito commerciale. È la giusta risposta alla domanda di un pubblico che chiede di essere recuperato alla sala, specie quello metropolitano che nell’America degli anni Sessanta ha cercato nel cinema delle risposte mai trovate a proposito di vecchi divi portatori di “buoni sentimenti” oramai sorpassati; di ruoli militari e polizieschi da sottoporre a revisione critica; di presa d’atto del processo irreversibile verso l’era postindustriale; dell’accettazione di un diverso sistema di vita e di valori e via così. Temi meno inseguiti nella grande provincia d’America, dove tuttavia (e basterebbe citare il nostro Duel oltre Easy Rider, Punto Zero di Richard C. Sarafian, 1971, il futuro Convoy di Sam Pekhinpah, 1978 e altri film) si prende atto che il nuovo road movie decreta la morte dell’antico territorio in chiave western e si prende il diritto di occuparlo con differenti oggetti (meccanici) e soggetti (realisticamente umani). Fermo restando che i sentieri polverosi percorsi da carri, diligenze e cavalli nel mito americano resteranno per sempre il nucleo che tutto ha generato.