Il cinema fa flop. E il Ministro?

di Claudio Trionfera

Una sala cinematografica deserta: immagine simbolica di una sconfitta

Lei sa, Ministro, che se l’azione è difficile o impossibile da compiersi sono sufficienti anche solo le parole. Naturalmente quelle giuste”.

DARIO FRANCESCHINI, probabilmente, non se ne vuole andare. E il fatto è inspiegabile per due motivi: riguardo al primo, è difficile pensare che sia ostinatamente aggrappato alla poltrona perché non sembrerebbe il tipo di farlo; riguardo al secondo, è altrettanto difficile capire come un fallimento di portata storica (e conseguenze disastrose) non induca a dimissioni il suo primo referente  politico, magari non artefice diretto di trame distruttive ma di sicuro immagine apicale a livello di responsabilità. Se no, uno, che lo fa a fare il ministro?

Qua si parla, ovviamente, del cinema (ma ci sarebbe anche tutto il resto dello spettacolo italiano) e del suo tracollo festivo. Colpa del virus, naturalmente e della conseguente ritirata strategica del pubblico che ha svuotato le poltrone delle sale per abbandonarsi ai divani di casa: magari uscendo per andare al ristorante nonostante l’impazzare dei rider in funzione-piattaforma.

Diciamocelo, però. Troppo facile e superficiale dare la colpa al Covid mutante, alla rogna della mascherina, all’obbligo del passaporto sanitario. Si ragioni piuttosto sull’assenza totale, colpevole e scellerata di qualsiasi iniziativa promozionale forte in favore del cinema da consumarsi nel suo luogo elettivo, motivo primo della nascita del cinema stesso. Un lavoro pure concettuale, teorico, addirittura “filosofico” sulla natura e la necessità della visione che andasse in profondità nel tessuto sociale, certo accompagnato da rivolgimenti radicali nella pratica del consumo televisivo. Invece niente, a parte quel miserabile hashtag (#soloalcinema) al gusto di beffa visto che certi film, “solo al cinema”, sono rimasti per una manciata di giorni prima di sprofondare nello streaming magmatico e appiccicoso come una palude horror.

E mentre produttori, distributori ed esercenti si disperano, piattaforme e player di telecomunicazioni sono più che mai sotto il cono di luce nutriti dalla pandemia e oramai con la presunzione – giustificata – di governare i destini del cinema diventandone i depositari in prospettiva futura: fingendo di non sapere che il cinema, senza la sala – cioè senza il suo specifico di luogo e di contesto – non è più tale e può morire davvero. Anch’esso mutante ma non, per sua sfortuna, pandèmico.

A chiarire meglio alcuni concetti applichiamo il non discutibile sistema dei numeri tratti da Cinetel, là dove si possono (an)notare le differenze fra passato e presente (il 2020 non viene considerato, la situazione come si ricorderà era tombale) e le cifre del relativo tracollo di oggi. Da notare che due stagioni fa il cinema era apparentemente in crescita rispetto all’anno precedente, sia nell’intero mese di dicembre, sia nel gennaio successivo (era uscito anche Tolo Tolo di Checco Zalone), osservazione che rende ancora più drammatici i termini della circostanza attuale.

(Il valore degli incassi è ovviamente espresso in euro)

Andare a scovare i motivi di tanto monumentale débâcle non è così difficile. Le risposte giuste arrivano, in buona parte, mettendo insieme i diversi elementi che hanno segnato la storia recente, ovviamente il boom virale, il rifugio domestico della gente, lo smart working, la voracità digitale, gli ostacoli alla fruizione dei film in sala, lo sviluppo smisurato dello streaming in piattaforma cui le condizioni generali, incluse quelle appena descritte, hanno fatto da acceleratore.

In tutto questo la politica è rimasta nella latitanza. Probabilmente perché il cinema, nell’immaginario parlamentare, non fa parte di quel “mondo del lavoro” e di quel “rilancio dell’economia” costantemente evocati, ma di un settore del quale, chissà, si potrebbe anche fare a meno. Gettandolo in pasto allo schermo televisivo. Ecco perché il Ministro per i Beni e le Attività culturali e per il Turismo – in effetti una delle poche teste rimaste al loro posto nel passaggio da un governo all’altro – dovrebbe dimettersi: Franceschini è, all’interno del Governo, colui che rappresenta tutto ciò del quale viene accreditato e del quale dovrebbe occuparsi  in modo dinamico e creativo. Qualità che egli sembrerebbe aver espresso e praticato soprattutto verso i musei, la riapertura dei quali venne annunziata in modo trionfalistico, un po’ meno verso il resto dei mondi di sua competenza.

Certo, il Ministro non ha fisicamente impedito a un pubblico potenziale di uscire di casa e andare al cinema, neppure lo ha bloccato con editti minacciosi o cordoni sanitari attorno alle sale. Però non ha fatto il contrario, ha subìto gli eventi ed è sembrato pigro. D’altra parte di fronte ad un fallimento, in qualsiasi settore delle nostre vite complicate, il primo responsabile è colui che occupa il posto di vertice. E come tale non può che rassegnare le sue dimissioni. Niente di personale, ovviamente il problema è più grande di lui. Ma è osservazione obiettiva. Come quella, sconsolata, che fotografa il cinema italiano tristemente appeso alla grana grossa di Pio e Amedeo  e alle nuvolette rosee di Luì e Sofi.

Sa, Ministro, se l’azione è difficile o impossibile da compiersi sono sufficienti anche solo le parole. Naturalmente quelle giuste”.