Lo strano caso delle sale cinematografiche

di Claudio Trionfera

GALLEGGIANO sostanze strane, inquietanti e inquinanti sulla superficie del liquido, un po’ nauseabondo a dire il vero, che ricopre i destini della sale cinematografiche in Italia. Vogliamo chiamarlo un “strano caso”.

Di strani casi è piena la nostra realtà. E ne è carica, in maniera illuminante e metaforica, la letteratura che sempre ci guida nella comprensione, appunto, della realtà. Per esempio c’è l’ipnosi ne Lo strano caso del signor Valdemar (The Facts in the Case of M. Valdemar) di Edgar Allan Poe, titolo acquisito dalla tv britannica nella serie in 13 episodi Tales of Mystery and Imagination del 1995, diventato semplicemente Valdemar col volto di Vincent Price nel film di Roger Corman I racconti del Terrore (Tales of Terror del 1962 con Morella, Il gatto nero e il nostro Valdemar).

Naturalmente si cita Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde di Robert Louis Stevenson (Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde, 1886) e qua i motivi cinematografici si sprecano fin dai tempi del muto (per esempio le regìe di Lucius Henderson nel 1912 e di Stuart Robertson con John Barrymore nel 1920) arrivando alle successive versioni pregevoli e sofisticate (le più note quelle dirette da Rouben Mamoulian nel 1931 con Fredric March e da Victor Fleming dieci anni dopo con il cast all stars Spencer Tracy, Lana Turner, ancora Fredric March e Ingrid Bergman).

Il Metropolitan di Roma, una delle sale storiche defunte

Poi ci sono Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (il romanzo di Marc Haddon e il relativo film di Marianne Elliott, 2015); quello, ugualmente bizzarro, di Benjamin Button (il racconto di Francis Scott Fitzgerald e il film di David Fincher del 2008 con Brad Pitt, Cate Blanchett e Tilda Swinton tra i molti) e quello di Harry Quebert (romanzo di Joël Dicker, film di Lynnie Greene e Richard Levine con Patrick Dempsey, 2019 e derivazione seriale tv inglese con lo stesso attore protagonista, firmata da Jean-Jacques Annaud).

Parliamo dei più conosciuti. Perché altri casi strani flottano nell’atmosfera. Prendiamo quello dei cinematografi. Che avrebbero un pubblico ma non riescono più a richiamarlo. Oppure non lo sanno fare. L’Anec, vale a dire l’associazione degli esercenti, s’adopera e s’arrangia aspettando aiuti e sperando in qualche film fortunato ma senza una strategia precisa e un progetto a medio termine capace di sedurre gli spettatori per il solo fatto di “fare sala” e tendenza (ri)creando modelli di comunità e stile di vita.

Che malinconia. Lo strano caso dei cinema italiani che lasciano cadere le loro saracinesche, con la sensazione che quelle saracinesche siano cadute da sole. Per sfinimento. Per i costi di gestione troppo alti e le frequentazioni troppo basse. Poi c’è l’assenza più importante: quella della volontà, che una volta era à la page chiamare volontà politica. Parlo di un impegno costruttivo, culturale e intelligente, frutto di una riflessione seria e non di una generica e un po’ puzzona manifestazione di solidarietà che assomiglia a un indifferente, deplorevole compatimento.

Qualcuno si chiede: sono questi i vertici delle associazioni cinematografiche di categoria?

Ineluttabile. In giro dicono così del destino delle sale, per ora solo di quelle, anche se in fondo alla strada c’è il destino di tutto il cinema perché il cinema – quello vero s’intende, con i suoi valori il suo boxoffice e il suo specifico artistico – si identifica con la sala e per questa, ovviamente, accade l’inverso. Sicché il cappio al collo delle sale e equivale all’esecuzione annunciata del cinema a beneficio del consumo domestico di prodotti seriali assai ben confezionati e orchestrati; e di un utilizzo sempre più spregiudicato dello streaming, dunque delle compagnie telefoniche che la rete, di nome e di fatto, l’hanno stesa su tutto il mondo percepibile.

Bisogna riconoscere la superiore capacità strategica dei manager televisivi e di chi guida la macchina della comunicazione globale inclusiva di piattaforme, social e format della visione. La serialità dà dipendenza e si allunga nel tempo, a differenza del film tradizionale che oramai viene percepito quale esperienza limitata e in ogni caso fruibile su schermi diversi (inclusi quelli degli smartphone – gulp) da quelli tradizionali. D’altra parte con c’è comunicazione avversa a questa appena descritta, se non quella che racconta, appunto, i passaggi di una resa progressiva o di un processo irreversibile. Versione che, naturalmente, scodella alibi e dà sollievo a molti, incluso un sepolcrale Ministro della Cultura cui sopravvivono soltanto i musei e i vertici freezati e atrofici delle associazioni di settore perpetuanti abitudini, gesti e idee legati a un sistema che non c’è più e deve perciò essere modificato.

Si può. Naturalmente se lo si vuole. Si aspettano mosse anche da Cattleya, Wildside, Groenlandia e Picomedia, le quattro case di produzione (a quote di maggioranza straniere) che hanno rotto con le posizioni dell’Anica e, sembra, del suo presidente proprio sull’ingresso delle multinazionali nel nostro cinema.