Luciano Odorisio ai confini della realtà

L’immagine di copertina del libro (ed. IlViandante)

di Claudio Trionfera

Ci sono almeno un paio di cose che colpiscono subito, davvero sulle prime pagine, in questo romanzo di Luciano Odorisio, frammentato e pure compatto, forse un non-romanzo, forse un ensemble di racconti convergenti in una complessa linea di memoria: l’una è la prefazione del comune amico Antonio Monda il quale, oltre la giusta interpretazione delle pagine che seguiranno, ricorda a sua volta il momento prodromico della sua amicizia con l’Odorisio, primi anni Ottanta, quale assistente alla regia del film Magic Moments che seguiva di poco il celebrato Sciopèn fresco di Leone d’oro a Venezia (opere prime e seconde). Insomma quasi un sistema di scatole cinesi, ricordi nei ricordi, dove entra inevitabilmente anche il mio, di quando, appunto, feci la conoscenza di Luciano, io critico di cinema, lui regista all’esordio con L’educatore autorizzato che nel 1980 s’era rivelato durante un festival squisito che si teneva a Sanremo, nel Ridotto dell’Ariston chiamato Ritz (la Mostra internazionale del film d’autore creata dal compianto Nino Zucchelli che colà lo aveva trasferito dalla natìa Bergamo), a sua volta dispensatore di conoscenze come il Krzysztof Zanussi di Illuminacja e via così. Chiusa la parentesi personale, l’altra cosa che colpisce è una paginetta a firma dello scrittore e umorista britannico Jerome K. Jerome che in una traccia di ironico riserbo affida i suoi “pensieri oziosi” al giudizio di un pubblico presumibilmente benevolo. Non so se questa fosse l’introduzione al suo scritto più famoso Tre uomini in barca ma di sicuro Odorisio l’ha scelta interpretandone il medesimo spirito di remota giocosa modestia.

Luciano Odorisio (foto AnnaLisa)

Detto questo c’è il romanzo con i suoi otto capitoli, meglio le sue storie: La doppia vita di un uomo triste, Era mio padre, Tic tac tic tac tic tac, La ballata di topo & zav, L’olonese vs il mago bustelli, Madonne & puttane, Il toro di via del Tricalle, La moglie del capitano. Racconti diversi ma in confluenza unitaria nella narrazione di un piccolo mondo antico – di certo in cifra anti-fogazzariana – descritto tra verità e fantasia perché, come avverte l’autore, “Non sono sicuro che le storie che ho raccontato siano del tutto vere ma di una cosa sono certo: non sono inventate“. Che poi è come dire una mezza verità o una mezza invenzione di una realtà rielaborata nel ricordo.

Dunque un Odorisio ai confini della realtà. Mezzo realismo e mezza visione (realismo visionario?) su un passato che trascolora e probabilmente, levitando, trascende. Tra l’infanzia dei fumetti e delle biglie e il ricordo di una figura paterna dalla vocazione musicale (il violino, la czarda…) repressa, quasi umiliata nell’oscuro lavoro di banca (“ma come cazzo c’era finito in quel luogo senza vita che era il suo ufficio?“), la partenza verso la nuova vita e il cinema, i ritorni, il fantasticare sui divi d’America, sugli scrittori, su Miles Davis jazzante all’angolo di una strada, quella notte di San Silvestro che introduceva il ’68 che pareva un anno qualsiasi – e invece.

Giuliana De Sio in “Sciopèn” di Luciano Odorisio (1982)

La ruspanza. Vale a dire un’ode ruvida e appassionata alla lontananza, alle nostalgie e alle speranze così carica di sentimenti e di slanci sinceri e affettuosi. Sinceramente affettuosi o affettuosamente sinceri che sembra la stessa cosa ma così non è. Nella continuità di un amarcord dove si mescolano passaggi di scrittura assai raffinata, frequenti inserti dialettali, frasi asciutte, immagini tagliate col coltello, periodi lunghi e complessi quasi di matrice proustiana. Perché in questa speciale Recherche chietina du temps perdu c’è anche il seme du temps retrouvé, tante voci dal ventre molle di una provincia sonnolenta in un pallido, tremolante e molto nostalgico universo.

Le Visioni di Luciano. Che come quelle del Cody di Jack Kerouac incrementano le sensazioni di un viaggio impressionista al centro delle cose. Quel jazz che echeggia nella mente dell’autore non è il bebop che risuona nelle strade notturne di New York e sugli asfalti lucidi di pioggia ma pura croccante libertà jazzistica chietina, non cè Lee Konitz visto davanti al bar fra la 49ª Strada e la Sesta Avenue ma il mondo magico della fantasia coniugata con la vita.

Sergio Castellitto e Stefania Sandrelli in “Magic moments” di Luciano Odorisio (1984)

Poi c’è la Moglie del Capitano, dominante nel tessuto narrativo e sullo sfondo di questo viaggio temporale e sentimentale. La leggendaria moglie del capitano. Una Lauren Bacall dispensatrice di sesso e fantasie erotiche tra i ragazzi e trasfigurata nella sordida relazione con suo marito, gonne sollevate, spogliarelli e mancamenti, bretelline discole e ribelli… L’apoteosi dell’ultimo capitolo, un canto, magari un addio. Jack Kerouac, Marcel Proust, un po’ di Federico Fellini. Usare i giganti per raccontare il mondo chietino di Odorisio non è modo improprio ma corretto: per avvicinare attraverso immagini codificate e stabilizzate nel tempo il paesaggi personalissimi di un autore dalle molte risorse, capace di dare al suo cinema un’impronta sempre originale e alla sua scrittura un’anima definitiva.

Il libro – La Moglie del Capitano di Luciano Odorisio. Edizioni IlViandante, 2022. Pagg. 284. € 16.50. – https://amzn.eu/d/aKHc8Y9 ⭐️⭐️⭐️⭐️