Paolo Genovese, la ballata delle anime sospese

Toni Servillo in una inquadratura da “Il primo giorno della mia vita”

IL PRIMO GIORNO DELLA MIA VITA – Regìa di Paolo Genovese. Con Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Margherita Buy, Sara Serraiocco, Gabriele Cristini, Giorgio Tirabassi, Lino Guanciale, Antonio Gerardi, Lidia Vitale, Vittoria Puccini, Elena Lietti, Thomas Trabacchi, Davide Combusti. Italia, drammatico. Produzione Lotus Production Leone Film Group, Medusa film. Distribuzione Medusa Film. Uscita 26 gennaio 2023. Durata 121’. 🍓🍓🍓🍓⚪️

di Claudio Trionfera

COGLI L’ATTIMO.  Mossa indispensabile,  in qualche modo fatale, da fare durante la visione del film. Che non è un film come un altro: intanto perché è di Paolo Genovese, cioè uno dei due o tre autori di livello che il cinema italiano annovera adesso; poi perché, come tale, riesce a discorrere su un tabu girandoci attorno con un linguaggio impastato d’apologo e metafora, scansando il realismo pure maneggiando una sostanza delicata e terribilmente concreta come il suicidio. E le scelte che lo determinano.

Insomma nel Primo giorno della mia vita (il regista lo riprende dal proprio omonimo romanzo, pubblicato nel 2018 con Einaudi) bisogna muoversi con circospezione e cogliere, appunto l’attimo. Quale, dove, quando. L’attimo è la scena della levitazione  (proprio così) in uno scalo ferroviario nell’ultimo quarto di film. Protagonisti Toni Servillo e Gabriele Cristini, c’est à dire il Magister senza nome e Daniele, un ragazzino rotondo e diabetico che ha deciso di andarsene dal mondo divorando in cifra autodistruttiva un vassoio di bignè senza farsi l’insulina. I due lèvitano per un paio di metri sul marciapiede d’una stazione perché il Magister ha deciso di accogliere un desiderio che Daniele riteneva quasi inesprimibile, quello appunto di “volare”. Sicché il magic moment della storia è qua: in questa sospensione che si specchia nel proprio sinonimo para-esistenziale dello status di pausa tra la vita e la morte, tra un “prima” e un “dopo”, al centro di un “durante” che sa di interruzione dell’inevitabile trapasso. Con i primissimi piani di piedi ben poggiati in terra a raccontare un’altra parabola della corsa.

Toni Servillo (di spalle) con Valerio Mastandrea, Gabriele Cristini, Margherita Buy e Sara Serraiocco

Volontà divina? Macché. Il Magister è una sorta di misteriosa entità pagana (alla fine si scoprirà la sua natura, ma non del tutto…) che, un po’ Caronte, un po’ angelo, va in giro con una vecchia Volvo station wagon dall’aria sepolcrale a raccattare anime suicide e a tenersele vicine per una settimana ragionando su ciò che è accaduto e a rivedersi, da essenze ancora vitali a metà trapasso, negli attimi delle loro scelte irreversibili, chi con un colpo di pistola, chi con il classico volo da un ponte, chi gettandosi dal terrazzo di un hotel, chi, come detto, azzannando un paio di chili di bignè davanti alla platea di un social media, scambio estremo della propria vita con qualche migliaio di follower. E qua c’è da disputare su un’ulteriore metafora messa in campo dall’autore.

A chi appartengono le altre anime sospese? A Valerio Mastandrea, il Napoleone motivatore tv dal successo di facciata e dal pessimismo cosmico; a Margherita Buy, una Arianna poliziotta straziata dalla perdita di sua figlia sedicenne; a Sara Serraiocco, una Emilia ginnasta che preferisce mostrarsi paraplegica piuttosto che accettare di arrivare seconda in una gara; al Daniele che abbiamo detto. Loro a confronto con il proprio passato/presente sospeso, en attendant la freccia che indica il futuro. E di altro è giusto non dire, allo spettatore il piacere di sciogliere i molti nodi che la narrazione stringe e ha il gusto di sciogliere con mosse consecutive: attorno a quei personaggi  con vocazione al suicidio liberatorio o se si preferisce, alla liberazione suicida.

Le luci della città “distopica” pronte a spegnersi e a rianimarsi

Certo, qualcosa del Cielo sopra Berlino deve essere rimasto nella testa di Paolo Genovese. O meglio deve avere scavato lentamente un percorso sotterraneo nella sua ispirazione, senza che, con questo, certi punti di raccordo siano evidenti, qualificabili e quantificabili nel gioco dinamico dell’azione scenica. Che si realizza tutta nel paradosso d’un “cambio di prospettiva” nitidamente manifestato in un film che vive sull’attesa della rivelazione finale. Per la verità Genovese, avviato più che mai sui sentieri dell’esplorazione, continua anche a macinare un pensiero strutturale già elaborato nel suo The Place (2017); non che vi siano evidenze di contatto ma la filosofia narrativa e le sue geometrie restano assimilabili.

Quest’opera insolita e originale (Genovese ha scritto la sceneggiatura con Paolo Costella, Rolando Ravello e Isabella Aguilar), nonostante i suoi effetti di straniamento ha il sapore di una ballad delle anime sospese e nel suo versante poetico, che pure è presente, si chiede dove finiscano quelle anime fatte ad un tempo di carne e di pura energia. Concetti mica facili, che l’andare della storia mastica un poco: alterando, se non proprio danneggiando alcuni raccordi narrativi senza tuttavia turbare troppo gli equilibri di un film che potrebbe fiancheggiare il ghost movie e il giallo ma si rivela più terreno che fantàsmico, anche confidando in una recitazione nei parametri degli attori che la esibiscono con estremo controllo.

Il regista Paolo Genovese. Nel 2018 ha pubblicato il suo romanzo sul quale ha tratto il film

Poi c’è Toni Servillo. A livello estetico (anche nel senso di semplice standard esteriore) fa un certo vederlo girare per Roma dopo La grande Bellezza, ma questo suo nuovo cammino ha la propria logica in un albergo triste tragico asfittico e una città livida, inzuppata di pioggia e probabilmente fetida come la Los Angeles distopica di Blade Runner. E una misura “distopica” ce l’ha anche questa Roma enigmatica con le sue luci che si spengono e si riaccendono a comando di felicità come fossero una decorazione natalizia; o nei continui cambi di angolatura prospettica (la prospettiva, conseguente, torna nella fotografia – bellissima – di Fabrizio Lucci) con la sua illuminazione fosca, vaporosa, ambigua, sorprendente, quasi esoterica.

Si associa al film e ne accompagna il trailer, con un titolo inglese che ribadisce quello italiano (The First Day of My Life),  la nuova canzone di Giorgia, elaborata con Maurizio Filardo, carica di vibrazioni calde e in felice sintonia con suo referente cinematografico.

© crediti fotografici Maria Marin